Nel precedente articolo ho analizzato criticamente lo stato attuale del James Webb Telescope e ho passato in rassegna alcuni progetti di telescopi spaziali che dovrebbero seguirlo in un futuro vicino (nei prossimi 10-15 anni). Ho anche accennato a una nuova filosofia di costruzione per rendere questi strumenti meno costosi e più efficaci, adesso andiamo in dettaglio su questi aspetti innovativi e futuristici che potrebbero vedere la luce intorno alla metà del secolo.
1) "Swarm telescope" e telescopi modulari auto-assemblanti
Un modo per ridurre la complessità e il costo dei futuri telescopi spaziali è quello di sfruttare l'economia di scala, utilizzando veri e propri "sciami" di telescopi identici, che lavorano all'unisono. Due sostenitori di questa idea sono Jayce Dowell e Gregory B. Taylor, del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell'Università del New Mexico, che hanno delineato la loro idea in uno studio intitolato “The Swarm Telescope Concept“, recentemente apparso online e accettato per la pubblicazione dal Journal of Astronomical Instrumentation.
Come affermano nel loro studio, l'astronomia tradizionale si è concentrata sulla costruzione, la manutenzione e il funzionamento di singoli telescopi. L'unica eccezione è la radioastronomia, in cui la lunghezza d'onda e gli effetti di diffrazione sono così grandi da costringere (e agevolare) l'uso di grandi interferometri, con molte antenne distribuite su una vasta area geografica al fine di ottenere una buona risoluzione angolare. Esempi in questo senso includono il "Very Long Baseline Array" (VLBA) e il costruendo "Square Kilometer Array" (SKA). Questi strumenti "distribuiti" stanno diventando sempre più dipendenti dalle capacità di calcolo per l'elaborazione dei segnali digitali; tali elaborazioni permettono ai telescopi di effettuare contemporaneamente più campagne di osservazione, il che ne aumenta le capacità ma anche la complessità operativa a causa dei differenti requisiti di configurazione e conseguenti conflitti di pianificazione.
Una possibile soluzione, secondo Dowell e Taylor, è ripensare il telescopio, che consiste in un array distribuito in cui molti elementi autonomi si uniscono attraverso un sistema di comunicazioni per funzionare come una singola struttura. Questo passaggio richiede di spostare parte del processo decisionale dai pianificatori e dagli operatori umani a "operatori definiti dal software" che operano su ciascuna parte della struttura. Tali agenti software comunicano tra di loro e costruiscono array dinamici per soddisfare gli obiettivi di più osservatori, adattandosi anche alle diverse condizioni di osservazione e allo stato dei vari elementi dell'array. Questo approccio, sostengono, sarebbe particolarmente utile nel caso "Next Generation Very Large Array" (NGVLA), un progetto di interferometro che si baserà sull'eredità del VLA e di ALMA.
Passando dalla banda radio a quella "visibile estesa" (che comprende infrarosso e ultravioletto vicini), e dalla superficie terrestre allo spazio, i concetti esposti richiamano l'idea di uno sciame di sonde-robot che si riuniranno nello spazio per formare un telescopio di almeno 30 metri. Questo concetto di telescopio spaziale auto-assemblante, attivo e modulare [l'acronimo dovrebbe essere SAAM, NdA] è stato proposto da un team di astronomi americani guidati da Dmitri Savransky, della Cornell University.
L'idea è ispirata dal concetto di "sciame di intelligenze", in cui il comportamento collettivo mostrato da grandi insiemi di insetti, uccelli o piccoli robots appare più complesso e "intelligente" rispetto a quello dei singoli individui. Il funzionamento dell'insieme si basa su tre fattori chiave: controllo autonomo degli elementi, sistema di comunicazione tra elementi e gestione del trasporto di dati.
Rappresentazione grafica (estremamente grossolana) del telescopio spaziale modulare auto-assemblante, costituito da un migliaio di elementi identici - Credit: D. Savransky
L'intera struttura del telescopio, compresi gli specchi primari e secondari, le strutture di supporto e il parasole, saranno costruiti da un unico modulo prodotto in serie. Ogni modulo sarà composto da un veicolo spaziale esagonale con diametro di 1 m, alla sommità del quale ci sarà uno specchio attivo anch'esso esagonale; lo specchio avrà almeno trenta gradi di libertà, azionati da attuatori meccanici. In questo modo, gli specchi primari e secondari assemblati saranno completamente attivi e potranno assumere la forma appropriata dopo il montaggio. I moduli verranno lanciati in modo indipendente come payload secondario e navigheranno verso il punto L2 Sole-Terra utilizzando una vela solare dispiegabile. Le vele solari diventeranno quindi il parasole del telescopio planare durante l'assemblaggio del telescopio, che funzionerà in modo autonomo senza ulteriori interventi umani o robotici.
Qui devo inevitabilmente inserire una serie di osservazioni personali, dato che le informazioni fornite dall'autore sono quantomeno parziali. E' possibile stimare che, se lo specchio principale misura 30 metri, sia costituito da quasi 700 elementi; aggiungendo il secondario e i supporti, si arriva facilmente ai 1000 elementi dichiarati. Sfruttando le corrispondenti 1000 vele solari, non è affatto necessario che esse siano grandi per garantire la costruzione di un ampio parasole multistrato: anche imponendo una superficie abbondante (un quadrato di 100 metri di lato) e una struttura a 5 strati (come quella del JWST, in realtà eccessiva se non si lavora nell'infrarosso termico) ne discende una superficie totale di 50 metri quadrati per ogni vela, un quadrato di soli 7 metri di lato! Tuttavia, anche se questo non viene dichiarato esplicitamente, è chiaro che il gruppo formato dagli strumenti astronomici, l'elettronica di bordo, i sistemi di comunicazione e di controllo dell'assetto devono essere lanciati a parte come "carico pesante", non riducibile a moduli poiché hanno funzionalità molto diverse tra loro; discorso analogo per i pannelli solari. Inoltre, non ha molto senso dotare di specchi anche gli elementi che andranno a formare le strutture di supporto (i tralicci che collegano tra loro i due specchi e quelli che collegano il telescopio al parasole); sarebbe molto meglio usare un numero limitato di cubesat specializzati, magari in grado di estendersi in lunghezza. Infine, nutro qualche dubbio sul fatto che il processo di assemblaggio possa avvenire in modo completamente autonomo, senza ricorrere al supporto di uno o più meccanici-robot multifunzione, in grado di operare autonomamente e manipolare le varie componenti, agevolando il distacco e il corretto posizionamento delle vele solari nel parasole e sostituendo eventuali elementi difettosi o danneggiati da micro-meteoriti. L'aggravio economico di queste varianti non dovrebbe comunque essere eccessivo rispetto al totale.
Il concetto "SAAM" è una rivisitazione in grande scala del LUVOIR (di cui abbiamo parlato nella prima parte) alla luce della "Roadmap tecnologica" della NASA in termini di strumenti scientifici, sistemi di sensori, robotica e sistemi autonomi. Questa architettura fornisce un percorso credibile per la costruzione di un gigantesco telescopio spaziale, altrimenti impossibile da realizzare con le tecniche di progettazione e assemblaggio attuali; esso consentirebbe una scienza rivoluzionaria e senza precedenti, compreso lo studio della superficie di pianeti simili alla Terra, l'imaging risolto di popolazioni stellari fino a 10 miliardi di anni fa, le ricerche su energia e materia oscura e molto di più!
2) Verso un telescopio interferometrico "definitivo"?
Come abbiamo appena visto, la prossima generazione di telescopi spaziali potrebbe sfruttare sciami di robot governati dall'intelligenza artificiale collettiva. Tali matrici sarebbero in grado di realizzare una astronomia e una interferometria ad altissima risoluzione, a costi inferiori rispetto all'approccio tradizionale. Ma fino a che punto ci si potrebbe spingere e quali sono i limiti estremi dell'esplorazione astronomica, perlomeno nella regione elettromagnetica del "visibile esteso"?
Svariati anni fa mi posi questo interrogativo e arrivai ad immaginare un gigantesco sistema interferometrico, con migliaia di grandi telescopi interconnessi tra loro e posti nella zona di librazione L2 di un pianeta gigante, nel sistema solare esterno. Esso potrebbe essere davvero la risposta definitiva all'esplorazione del cosmo, rendendo in parte inutili anche le missioni interstellari; per questo battezzai l'idea come "Definitive Interferometric Space Observatory" (DISO), un nome forse presuntuoso ma neanche troppo. Il costo di una simile struttura sarebbe inimmaginabile con le tecnologie attuali, tuttavia dovrebbe essere fattibile in un futuro medio-lontano, nella seconda metà del secolo; a quell'epoca, nella speranza che la razza umana non sarà regredita né tanto meno estinta e che i nostri nipoti avranno forse colonizzato buona parte del sistema solare, essi avranno a disposizione tecnologie molto più sofisticate, in special modo nei campi dello sfruttamento minerario dei corpi celesti, degli automi auto-replicanti, dell'intelligenza artificiale, della metrologia e del calcolo ad altissime prestazioni (eventualmente tramite computer quantistici).
2.1) Come deve essere fatto?
Per cominciare, quali sono i requisiti che un sistema del genere deve soddisfare? Nell'idea iniziale, mi ero riproposto in particolare un obiettivo: riuscire a fotografare gli eso-pianeti delle stelle a noi vicine con la stessa squisita risoluzione che ci hanno regalato le sonde Voyager sui corpi del sistema solare esterno. Un simile risultato permetterebbe di rivoluzionare la conoscenza di questi corpi, individuando con una certa facilità la presenza di forme di vita eventualmente intelligenti; di fatto, fornirebbe probabilmente più informazioni di una missione interstellare automatica dedicata (come la recente proposta StarShot), moltiplicata però per centinaia di sistemi planetari intorno a noi! Per vedere dettagli non più grandi di qualche km a distanza di alcuni anni luce, è necessaria una risoluzione dell'ordine di 10 nanosecondi d'arco (10-8 arcsec) e questo, nella banda visibile, si traduce in una apertura di circa 13000 km1; si tratta di una distanza comparabile al diametro terrestre, a cui già si avvicinano le osservazioni interferometriche su base intercontinentale (VLBI), compreso il celebre progetto EHT di cui abbiamo spesso parlato; tuttavia, in questo caso, la lunghezza d'onda è migliaia di volte più piccola e di conseguenza la risoluzione è molto maggiore. E' chiaro che realizzare uno specchio o una lente "piena" di queste dimensioni è improponibile, anche avvalendosi di tecnologie molto avanzate. Quindi è necessario ricorrere a un sistema interferometrico in cui solo una piccola frazione dello spazio all'interno della nostra apertura è effettivamente colmata dalla superficie otticamente attiva di telescopi isolati, la cui luce viene raccolta e ricombinata in un apposito "correlatore". Tutto questo oggi lo si riesce a fare già con i suddetti sistemi VLBI ma "a posteriori", registrando digitalmente il segnale raccolto da ciascuna antenna e ricombinando il tutto in un secondo momento; in altri interferometri più compatti, come il VLA o ALMA, la ricombinazione avviene in tempo reale ma è richiesta una grossa capacità di calcolo da parte del dispositivo correlatore, che di fatto è un server ad elevatissime prestazioni. Con il progetto SKA (Square Kilometer Array) si riuscirà a fare questa correlazione in tempo reale su base intercontinentale e con un numero molto più grande di antenne; un assaggio di quanto si potrà osservare è stato fornito nei giorni scorsi dalla splendida immagine delle fiammeggianti regioni attorno al centro della Via Lattea, realizzata con l'interferometro pilota MeerKAT; la ricchezza di dettagli di questa immagine, la sua dinamica e l'ampio campo abbracciato sono tutte caratteristiche impensabili utilizzando una singola antenna!
Immagine del "bulge" galattico, ampia circa 2°, ottenuta con il radiointerferometro MeerKAT in SudAfrica. - Credits: SARAO/SKA Africa/Lorenzo Raynard - Processing: M. Di Lorenzo
Naturalmente, trasferire la tecnica interferometrica in tempo reale dalla banda delle onde radio a quella del "visibile esteso" è una impresa titanica, poiché le tolleranze sono migliaia di volte più stringenti (essendo proporzionali alla lunghezza d'onda); ad esempio, è necessario conoscere l'esatta posizione dei vari telescopi con una accuratezza metrologica dell'ordine della decina di nanometri (10-8 m), cosa possibile solo tramite un sofisticato sistema di posizionamento laser. Anche la larghezza di banda e le capacità di calcolo del correlatore sono spaventosamente più grandi di quelle già imponenti richieste da SKA e, in questo senso, un aiuto fondamentale potrebbe derivare dallo sviluppo di computer quantistici, nettamente più rapidi degli attuali; va inoltre rimarcato che le informazioni raccolte dai telescopi non potranno essere trasmesse al correlatore usando le onde radio ma si dovranno usare necessariamente frequenze più alte per sostenere l'elevatissimo bit-rate; probabilmente, neanche impulsi laser di luce visibile basteranno e bisognerà ricorrere a luce ultravioletta o addirittura ai raggi X! Una alternativa a tutto questo dispiegamento di potenza di calcolo sarebbe quella di ricorrere ad un correlatore "analogico" in cui, dopo avere introdotto opportuni "ritardi di fase" per correggere l'inevitabile "non-planarità" e "non-perpendicolarità" nella configurazione di questi telescopi rispetto alla direzione di arrivo della luce, si lascia che i fasci di luce interferiscano tra loro. Questo è ciò che effettivamente si fa negli attuali interferometri ottici, come il VLTi, poichè non esiste ancora una tecnologia che permetta di farlo digitalmente. Nel caso di DISO, però, l'enorme complessità nel progettare il sistema analogico, unito alle sue limitazioni, lo renderebbero probabilmente sconsigliabile.
Ci sono poi le questioni della limitata luminosità dello strumento e della ridotta copertura nel "piano delle frequenze", entrambe conseguenze inevitabili della natura frammentata e parziale con cui avviene la raccolta della luce da parte dell'interferometro. Per garantire una buona sensibilità, la superficie totale deve essere ampia, anche se quanto ampia dipende dal particolare tipo di osservazione; anche qui, per fissare una analogia con SKA, fissiamo la superficie totale vicina a 1 km2, diciamo equivalente a un'apertura circolare di 1 km. Allora, utilizzando come elementi base dei telescopi auto-assemblanti di circa 32 metri analoghi a quelli descritti nel paragrafo precedente, se ne ricava uno sciame di circa 1000 telescopi. Una simile superficie di raccolta, in caso di lunghe esposizioni, consentirebbe di raggiungere agevolmente la 42a magnitudine con i sensori attualmente in uso(2); per dare una idea, questa è la magnitudine apparente di un pianeta come la Terra a una distanza di oltre 12000 anni luce oppure di una stella di tipo solare in una galassia situata a circa 1 miliardo di anni luce. In realtà, dato l'esasperato potere risolutivo angolare, gran parte degli oggetti studiati dal DISO non apparirà puntiforme e quindi il concetto di magnitudine apparente andrebbe sostituito con quello di brillanza superficiale, tipico della radioastronomia. Inoltre, nell'epoca di cui stiamo parlando dovrebbero essere disponibili sensori ancora più sofisticati, capaci di estrarre ogni genere di informazione sulla radiazione (intensità, fase e polarizzazione in funzione della frequenza) avvicinandosi ai limiti imposti dalla meccanica quantistica e dal principio di indeterminazione.
L'altro aspetto della limitata copertura sul "piano delle frequenze" è legato al fatto che, in un interferometro, spesso non sono presenti tutte le possibili spaziature tra le antenne con tutti i possibili orientamenti; queste lacune spaziali si traducono in una perdita di frequenze angolari (tramite l'operazione nota come "Trasformata di Fourier") e quindi in una certa dose di ambiguità o arbitrarietà nell'immagine ricostruita della sorgente. Nei radiointerferometri terrestri si ovvia in parte a questo problema sfruttando la rotazione terrestre per cui, viste dalla sorgente, le antenne percorrono degli archi di ellisse e variano le spaziature reciproche e gli orientamenti relativi durante l'osservazione. Nel sistema DISO, probabilmente, i singoli telescopi avranno movimenti troppo lenti per poterli sfruttare a questo scopo; siccome la configurazione risulta praticamente fissa durante l'osservazione, è necessario disporre accuratamente i telescopi, con coppie di separazione/orientamento ben distribuite e non ridondanti. Un possibile schema è quello a strutture gerarchiche mostrato di seguito, dove il singolo telescopio multispecchio (a) viene inserito in una terna di 3 telescopi (b) eventualmente collegati fisicamente tra loro e con un parasole comune (in verde); il tutto viene poi replicato in una configurazione più ampia sui vertici di un pentagono (c) e questa formazione di 15 telescopi viene ripetuta 9 volte su ciascuno dei 7 bracci di una grande spirale, con spaziature che seguono una progressione geometrica.
Copyright: Marco Di Lorenzo
Queste particolari spaziature, come pure la scelta di poligoni con un numero dispari di facce, sono motivate sempre dalla necessità di assicurare una copertura uniforme sul piano delle frequenze spaziali, evitando ripetizioni nelle distanze e negli orientamenti di tutte le coppie di telescopi. Il numero di coppie possibili è a dir poco enorme (2999≈5·10300) e calcolare l'interferenza per ciascuna di esse potrebbe essere una impresa ardua anche per un calcolatore quantistico; per questo ho dato al sistema una architettura gerarchica, in cui ogni sottoinsieme di 15 telescopi potrebbe fare riferimento a un correlatore locale (cerchio rosso al centro del pentagono) che pre-elabora in parte l'immagine producendo una versione a "bassa risoluzione" (si parla comunque di una frazione di millisecondo d'arco) e invia le rimanenti informazioni cruciali al grande correlatore centrale. Una filosofia gerarchica di questo tipo avrebbe anche altri vantaggi, come quello di poter effettuare contemporaneamente decine di osservazioni separate (quando non è richiesto tutto il potere risolutivo dell'interferometro) e di poter iniziare quasi subito a fare osservazioni, anche durante le prime fase di costruzione della schiera, con un numero limitato di telescopi. Quest'ultimo aspetto è molto importante, poichè la costruzione di un simile strumento richiederà sicuramente molto tempo (più di un decennio) e al limite potrebbe continuare indefinitamente, dal momento che più telescopi si aggiungono, migliori saranno le performances, mentre i progressi tecnologici sapranno far fronte alle aumentate esigenze di calcolo; il termine "definitivo" nell'acronimo deriva proprio da questa possibile filosofia e quindi va inteso come "in continuo divenire" piuttosto che come strumento "finale"3.
2.2) dove va installato?
Ed eccoci alla questione del dove costruire un simile strumento. Il punto di librazione L2 del sistema Terra-Sole è il primo ovvio candidato, tuttavia questa regione, situata a 1,5 milioni di km dalla Terra, sarà probabilmente già affollata tra mezzo secolo. Inoltre, il sistema solare interno è immerso nella luce zodiacale, causata dai grani di polvere interplanetaria che già adesso sono la principale fonte di "inquinamento luminoso" per i telescopi spaziali, disturbando l'osservazione profonda delle regioni vicine all'eclittica, specialmente se l'elongazione dal Sole non è elevata. Il discorso dell'elongazione dal Sole ci porta anche ad un'altra considerazione fondamentale: anche posizionandosi esattamente nel punto L2 della Terra, il telescopio riceverebbe una cospicua illuminazione da parte del Sole poiché il cono d'ombra terrestre è troppo corto e il telescopio si troverebbe nella cosiddetta penombra, cioè in una "eclisse parziale" e non totale. E' quindi necessario proteggere accuratamente le ottiche e i sensori dalla luce diretta o indiretta del Sole e, di conseguenza, l'intero emisfero celeste centrato sul Sole risulta di fatto precluso a un telescopio "aperto" poiché la presenza di un parasole nelle immediate vicinanze impedisce di puntare una zona di cielo che formi un angolo inferiore a 90° con la nostra stella. Questo è un impedimento davvero notevole per certe osservazioni, immaginiamo una supernova o un altro evento improvviso (come un GRB) che ha il 50% di probabilità di non poter venire osservato nelle fasi critiche per questo motivo! Le due possibili soluzioni sono quella di avvolgere il telescopio in un parasole cilindrico come succede per Hubble Space Telescope oppure, al contrario, allontanare parecchio il parasole dal telescopio; in entrambi i casi si arriverebbe a dimezzare facilmente l'elongazione minima dal Sole (45°) e la regione preclusa alle osservazioni si riduce del 70%. In entrambe le soluzioni, però, ci sono problemi tecnici: un telescopio gigante "intubato" sarebbe notevolmente più complesso da costruire nello spazio e poi non garantirebbe lo stesso livello di isolamento termico, cosa fondamentale nel caso di osservazioni nell'infrarosso medio-lontano e importante comunque per assicurare un buon funzionamento dei sensori. Un parasole "lontano" sarebbe comunque un pò più grande e bisognerebbe considerare anche il peso della struttura fisica che lo collega al telescopio, oltre alle sue insidiose oscillazioni meccaniche che potrebbero ripercuotersi sulla stabilità di puntamento.
La soluzione ottimale e definitiva sarebbe quella di eliminare completamente il parasole, cosa che potrebbe sembrare impossibile e che invece è praticabile in alcuni posti molto speciali del Sistema Solare. Sto parlando delle zone di librazione L2 dei pianeti giganti, il cui cono d'ombra totale è ancora talmente ampio da poter comodamente ospitare l'interferometro DISO. Nella seguente tabella, infatti, vediamo a che distanza (media) si trovano i punti di librazione e quanto è ampio (in media) il cono d'ombra in quei punti.4
Copyright: Marco Di Lorenzo
Come si vede, l'unico pianeta interno ad avere un punto di librazione in ombra è Marte, ma l'ampiezza della totalità risulta minuscola per i nostri scopi. Invece tutti i pianeti giganti si prestano ad ospitare, nel loro cono d'ombra, un interferometro delle dimensioni di DISO e, nel caso di Giove e Saturno, è possibile pensare anche a un ampliamento di circa 4 volte! I due giganti maggiori sono comunque preferibili, sia perchè non troppo lontani da raggiungere, sia perché il loro periodo di rivoluzione è tale da poter effettuare anche misure di parallasse in un tempo ragionevole; infatti, sfruttando la risoluzione eccezionale e avvantaggiandosi di orbite più ampie, in un arco temporale di 1 o 2 decenni DISO sarebbe virtualmente in grado di misurare la distanza geometrica di qualsiasi oggetto nell'universo osservabile (!)5 . Si potrebbe anche pensare a un sistema doppio, con una metà dei telescopi nell'ombra gioviana e una metà su Saturno, in modo da poter effettuare misure "istantanee" di parallasse su una "baseline" che può andare da 4,5 a quasi 15 unità astronomiche!
Il vantaggio di stare nell'ombra di un pianeta implica però anche un problema: l'approvvigionamento energetico. Infatti, nel caso dei satelliti nella regione L2 della Terra viene imposta un'orbita di tipo "halo" intorno al punto di librazione, proprio per evitare la penombra e massimizzare l'irraggiamento dei pannelli solari (oltre che per questioni di stabilità termica). Nel caso di DISO questo trucco non è applicabile, però ci sono diverse alternative percorribili: una potrebbe essere il ricorso a generatori di energia su ogni telescopio, una pila RTG o anche (considerando l'evoluzione tecnologica) piccoli reattori a fusione; eventualmente, solo i correlatori locali ne sarebbero dotati, smistando poi l'energia tramite laser o via collegamento fisico. Un'altra possibilità è quella di recapitare l'energia a distanza, magari usando micro-onde come in certi progetti di centrali solari orbitanti presentati in passato.6
2.3) Come costruirlo?
Naturalmente, la "fabbrica di telescopi" non può essere sulla Terra ma in un luogo più vicino e ricco di materie prime. Nel caso di Giove, si potrebbe pensare a un satellite galileiano ma non è una buona idea; a parte il problema dell'intenso bombardamento radioattivo, infatti, bisogna spendere molta energia per uscire dalla "buca gravitazionale" di Giove. Molto meglio i satelliti esterni oppure gli "asteroidi troiani" situati intorno a L5 e L6. Va da se che ciascun telescopio (o gruppo di telescopi collegati fisicamente) dovrà essere dotato di un sistema propulsivo per mantenere l'assetto relativo all'interno dell'interferometro, oltre a un sistema di reazione angolare per potersi orientare verso un particolare obiettivo celeste.
I siti di estrazione delle materie prime, di fabbricazione e di assemblaggio dovrebbero essere fortemente automatizzati e la presenza umana ridotta al minimo, facendo affidamento su robot autonomi ed intelligenti. Nella tabella sottostante, riporto una roadmap indicativa di quella che potrebbe essere l'evoluzione di DISO in tre fasi costruttive distinte, ciascuna di 15 anni (le date sono puramente indicative). Con l'evolversi delle tecnologie, gli specchi diventeranno sempre più grandi e performanti, aggiungendosi lungo i bracci della spirale geometrica fino a riempire l'intera regione in ombra. E' chiaro che le osservazioni inizierebbero quasi subito e non dovranno subire grosse interruzioni man mano che si aggiungono nuovi elementi. Nella prima fase, è richiesta una produzione media di un telescopio ogni 5-6 giorni mentre nella terza fase il ritmo è triplicato con telescopi di dimensioni raddoppiate.
Copyright: Marco Di Lorenzo
Alla fine della fase 3, le prestazioni saranno aumentate di un fattore 4 in termini di risoluzione e di 17 volte nella capacità di raccolta della luce. Sarà così possibile vedere i pianeti di tipo terrestre in gran parte della Via Lattea (assorbimento interstellare permettendo). Una singola immagine ripresa da DISO nel visibile, pur abbracciando un campo minuscolo di 1,6 millisecondi d'arco (pari al cerchio di diffrazione di un singolo telescopio) conterrà oltre 1000 miliardi di pixel!
Un'ultima considerazione va fatta sulla possibilità dell'eventuale disturbo introdotto sul fronte d'onda della luce su scala delle migliaia di km, da parte del mezzo interplanetario e interstellare. In effetti, è probabile che la questione si presenti realmente poiché da tempo, nella radioastronomia, si conosce il fenomeno della scintillazione delle radiosorgenti, imputabile al plasma interplanetario. Nel caso in cui questo disturbo dovesse mettere a repentaglio l'estrema risoluzione del DISO, bisognerebbe realizzare apposite ottiche adattive simili a quelle pensate per l'atmosfera ma operanti su una scala spaziale e temporale molto maggiore e implementate via software. Questo è anche un ulteriore motivo per spostare l'interferometro verso l'esterno del Sistema Solare, dove questo disturbo dovrebbe essere nettamente inferiore.
2.4) In conclusione, ne vale la pena?
Assolutamente si. Il progetto può apparire faraonico e per qualcuno quasi delirante, lo è solo se pensiamo alle tecnologie e alle disponibilità attuali, non per quelle che saranno (ci si augura) disponibili nella seconda metà del secolo. Del resto, è questa la direzione che il progresso astronomico va prendendo, insieme naturalmente alla nuova astronomia multi-messenger. Peraltro, a questo proposito va sottolineato che, con qualche modifica e aggiunta, DISO potrebbe essere utilizzato anche come una sofisticata antenna gravitazionale per onde di media frequenza, qualcosa che si sta tentando di fare anche con il VLBI ma con una sensibilità migliaia di volte maggiore.
Rimanendo nell'ambito dell'astronomia "tradizionale", molti risultati che DISO potrebbe ottenere sono semplicemente inimmaginabili. Di certo, permetterà di vedere in dettaglio centinaia o migliaia di esopianeti senza dover lanciare apposite sonde interstellari per fugaci incontri dopo interminabili viaggi; consentirà di studiare buchi neri supermassicci e altri corpi collassati con un dettaglio migliaia di volte quello di EHT; permetterà di misurare la parallasse, e quindi la distanza geometrica reale, di tutte le galassie nell'universo e chissà cos'altro.7 E' chiaro che progressi simili si registreranno anche in altre bande dello spettro elettromagnetico e, in particolare, la stessa risoluzione potrà essere raggiunta anche da radio-interferometri con antenne sparse nel Sistema Solare interno; si tratterà comunque di osservazioni complementari a quelle di DISO e che certamente non ne ridurranno la valenza.
Note:
1) Volendo fare calcoli precisi, supponiamo di osservare un pianeta attorno a Proxima Centauri. Alla distanza di D=4,24 anni luce, la risoluzione angolare "di riferimento" pari a α=10 nas corrisponderà a un dettaglio di d=1,94 km (geometricamente α ≈ d/D in radianti); utilizzando il "criterio di Rayleigh" (A=1,22 λ/α) per una fenditura circolare con una luce di colore verde (λ=530 nm), l'apertura corrispondente risulta essere A=13300 km.
2) Il calcolo si basa sul fatto che le esposizioni profonde realizzate da Hubble Space Telescope (ad esempio l'Hubble Ultra Deep Field) raggiungono la magnitudine 29 e il guadagno sarebbe Δm=5Log(A1/A2)=+13,1 magnitudini nel nostro caso.
3) Un paragone in campo artistico/architettonico potrebbe essere la celebre cattedrale della "Sagrada Familia" a Barcellona, iniziata da Gaudì quasi 140 anni fa e che è ancora in costruzione!
4) per i calcoli, ho utilizzato le seguenti formule, dove a è il semiasse maggiore del pianeta, m la sua massa, r il suo raggio, M e R la massa e il raggio del Sole, d la distanza L2-pianeta, s la lunghezza dell'ombra e o la sua semiampiezza in L2:
d = a(m/M)1/3 ; s = ra / (R-r) ; o = (R-r)(s-d) / a
5) Infatti, avendo una precisione astrometrica valutabile in mezzo nano-secondo d'arco (almeno diecimila volte superiore a Gaia), nel caso di una collocazione vicino a Giove si potrebbe misurare la parallasse di una stella primordiale posta a 13,5 miliardi di anni luce con una incertezza del 35-40%, valore che scenderebbe al 20% per una collocazione su Saturno.
6) Soprattutto nel caso di costruzione vicino Saturno, in verità, un parasole sarebbe comunque consigliabile per bloccare la luce diffusa dagli anelli; esso tornerebbe utile (ma meno necessario) anche per Giove data la luce diffusa dai satelliti, dal debole anello e dalla luce zodiacale intorno al Sole. In ogni caso, si tratterebbe di un parasole semplificato con un solo strato...
7) Per dare un'altra idea della terrificante portata di un simile strumento, basta dire che gli oggetti nella Via Lattea, per poter essere osservati, necessiteranno di una messa a fuco a seconda della loro distanza, come succede nella fotografia tradizionale di oggetti relativamente vicini! Naturalmente, essendo un interferometro, la focheggiatura non è ottica ma verrà effettuata dal software del correlatore...
Riferimenti:
hhttps://www.universetoday.com/139149/nasa-is-investigating-a-self-assembling-space-telescope/