NASA Dawn - Vesta

Credit:  NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/PSI

Gli astronomi hanno recentemente ricreato i due urti catastrofici che avrebbero colpito il grande asteroide Vesta, supportando così l'ipotesi che il proto-pianeta abbia effettivamente una crosta più spessa del previsto.

Lo studio è stato pubblicato ieri 13 febbraio sulla rivista Nature e descritto in un report sul sito space.com.

Il nuovo modello si basa su simulazioni computerizzate di collisioni, avvenute negli ultimi miliardi di anni, tra Vesta e due asteroidi di 32 chilometri di diametro.

I risultati suggeriscono che la crosta di Vesta, a seguito degli impatti, si sia fusa e poi riformata più spessa.

Le collisioni avrebbero scolpito due gradi crateri da impatto.
Il più antico Veneneia, formatosi circa 2 miliardi di anni fa con un diametro di 395 chilometri, copre quasi tre quarti del diametro dell'equatore di Vesta.
Quasi un miliardo di anni dopo, si sarebbe formato l'altro grande cratere, Rheasilvia, di 505 chilometri, che si estende per il 90% del diametro di Vesta ed è anche uno dei più grandi crateri del Sistema Solare.

La superficie dei due crateri ha ormai da tempo destato l'interesse degli scienziati che, grazie alle immagini della sonda della NASA Dawn, hanno potuto studiare le caratteristiche macchie scure come il carbone che caratterizzano l'emisfero meridionale.

Vesta, il secondo asteroide più massiccio del nostro Sistema Solare, sarebbe nato come proto-pianeta ma la sua formazione sarebbe stata bloccata dalle vicinanze di Giove.
Il suo interno, a differenza degli altri asteroidi, è separato in strati in modo molto più simile ad un pianeta, con un nucleo metallico, un mantello composto principalmente da olivina e una crosta rocciosa.

Quando si sono verificate le collisioni che hanno generato i crateri Veneneia e Rheasilvia il materiale è stato scavato fino a 100 chilometri di profondità.
Dato che in teoria la crosta dovrebbe essere spessa intorno ai 40 chilometri, tali impatti avrebbero sparso pezzi di crosta e mantello su tutta la superficie dell'asteroide.

Secondo i modelli sviluppati dal team, i detriti della crosta si sarebbero sparsi in tutto l'emisfero settentrionale, mentre l'emisfero meridionale sarebbe stato coperto da vaste aree di olivina appartenenti al mantello e alle parti più profonde della crosta.

Quando nel 2011 la sonda della NASA Dawn ha studiato la superficie non ha rilevato però alcuna traccia del mantello sul fondo del cratere Rheasilvia.

"Le osservazioni fatte da Dawn mostrano che rocce ricche di olivina mancano nei bacini del polo sud", ha detto Jutzi, dell'Università di Berna in Svizzera. "Questo suggerisce che il manto di Vesta non è stato scavato nel corso dei due grandi impatti nell'emisfero sud".

Gli scienziati ipotizzano tre possibili spiegazioni:
- i resti del mantello sulla superficie non sarebbero stati visti da Dawn
- altri eventi ancora più importanti nella storia di Vesta, avrebbero rimescolato la superficie e dato che l'olivina di per sé è già molto difficile da rilevare spettroscopicamente, questo avrebbe potuto eludere gli strumenti della sonda
- le misure attuali sulla crosta non sono corrette. Teorie precedenti infatti, suggerivano già che la crosta si fosse formata più spessa dei 40 chilometri stimati, a causa dell'emissione di un lento magma di raffreddamento.

Quest'ultima strada è appunto quella appoggiata dal team di ricerca: la crosta di Vesta, in realtà, sarebbe più spessa di quanto stimato.

Il 5 settembre del 2012 la sonda della NASA Dawn ha lasciato Vesta per intraprendere i suoi due anni e mezzo di viaggio verso Ceres. Dawn ha iniziato la sua odissea il 27 settembre 2007, con un percorso di 5 miliardi di chilometri, per esplorare i due oggetti più massicci della fascia principale di asteroidi del nostro Sistema Solare. Ha raggiunto Vesta nel 2011 e arriverà a Ceres nei primi mesi del 2015.