"Una volta che in processo diventerà automatizzato e scalabile la Nazione avrà la capacità a lungo termine per la produzione di sistemi di alimentazione a radioisotopi come quelli utilizzati dalla NASA per l'esplorazione dello spazio profondo", ha detto in un comunicato Bob Wham, responsabile all'ORNL.
L'impiego di plutonio-238 per l'esplorazione spaziale non è nuovo: gli Stati Uniti hanno usato radioisotopi in 27 missioni.
In questo momento sta alimentando il rover Curiosity su Marte, la sonda New Horizons ai confini del Sistema Solare e le ancora più lontane Voyager. Ma quello ancora disponibile a Terra riuscirebbe ad alimentare appena tre batterie NASA, una quantità assolutamente insufficiente per l'avvenire.
Le prime unità furono prodotte alla fine del 1950 e all'inizio del 1960 dagli Stati Uniti e con i programmi spaziali sovietici (l'Agenzia Spaziale Europea ESA, invece, non ha mai sviluppato fonti di energia nucleare per le missioni, una politica che limita la durata di funzionamento degli orbiter e dei lander all'energia solare. Ne è un esempio Philae, il lander della missione Rosetta, che atterrato sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko a novembre 2014, ha potuto lavorare solo 57 ore prima di finire al freddo e ibernato).
In America il processo si interruppe nel 1988 quando il Savannah River Plant, vicino a Aiken nella Carolina del Sud, gestito dal DOE, smise di produrre il plutonio-238 per scopi bellici. Dopo aver acquistato piccole quantità dalla Russia per soddisfare le necessità di routine, ora il DOE sta ricominciando la produzione in casa ed inizierà fornendo alla NASA dai 300 ai 400 grammi di materiale all'anno, per arrivare ad una media di 1,5 chilogrammi annuali una volta che il processo sarà consolidato.
Il plutonio-238 è diverso dal plutonio usato nelle armi nucleari e nelle centrali anche se è comunque radioattivo.
E' un isotopo, cioè è una variante del plutonio che ha un diverso numero di neutroni nel nucleo. Quando decade naturalmente in uranio-234 emana una grande quantità di calore, abbastanza per essere sfruttata come energia elettrica in batterie nucleari chiamate generatori termoelettrici al radioisotopo, RTG (Radioisotope Thermoelectric Generators). Questi sono formati quindi essenzialmente da due parti: una sorgente di calore a radioisotopi e un sistema per convertire il calore in elettricità. Il calore ha poi il vantaggio di mantenere gli strumenti scientifici a temperature operative accettabili nel vuoto gelido di spazio.
Il plutonio-238 è stato scelto sia per sua efficienza (produce un'elevata quantità di energia per un grammo di materiale) e sia perché è relativamente sicuro dato che emette solo particelle α, una forma di radiazione con un basso potere di penetrazione contro le quali ci si può proteggere piuttosto facilmente.
Per quanto questa scelta sia stata molto discussa in passato e continui a suscitare perplessità, al momento è ancora la soluzione migliore per tutte quelle missioni che operano nello spazio profondo, troppo lontano dal Sole per trarne benefici, o che richiederebbero di così tanta elettricità per funzionare tanto da dover installare pannelli solari giganteschi.
La sonda della NASA Cassini, ad esempio, ha usato un RTG per viaggiare verso il sistema di Saturno e ne trae energia per compiere manovre importanti e mantenere al caldo la strumentazione.
In base ai progetti iniziali, la fonte di energia avrebbe dovuto alimentare la sonda per ben 11 anni, tra viaggio e missione scientifica primaria di quattro anni. I calcoli suggerivano che anche la cella solare più efficiente, all'epoca prodotta dall'Agenzia Spaziale Europea ESA, non sarebbe riuscita a portare la sonda a destinazione perché i pannelli solari sarebbero dovuti essere così grandi da non poterla neppure lanciare nello spazio. Per soddisfare il fabbisogno energetico della Cassini i pannelli solari avrebbero dovuto coprire una superficie di oltre 500 metri quadrati (sto rispolverando molti fatti attorno a questa storia scrivendo il mio libro dedicato alla missione!).
Per sommi capi, la nuova linea di produzione inizia dall'Idaho National Laboratory di Idaho Falls estraendo l'isotopo nettunio 237 dal combustibile esaurito di un reattore nucleare. Il nettunio viene poi inviato a Oak Ridge nel Tennessee, dove veniva prodotto l'uranio per le bombe atomiche della seconda guerra mondiale. Qui, nel campus ORNL, il nettunio 237 riceve le prime lavorazioni, confezionato sotto forma di pellet ed inviato al High Flux Isotope Reactor, un edificio storico nel ciclo produttivo di 49 anni fa. Quindi, il nettunio 237 viene esposto al nocciolo del reattore e bombardato per 25 giorni, assorbendo però solo ridotte percentuali di neutroni. Quello che si ottiene è un po' di nettunio 238 che, a sua volta, decade rapidamente in plutonio 238. Un procedimento lungo e complicato, che sta richiedendo l'adeguamento di vecchie strutture.
Perciò, se da una parte il DOE sta cercando di massimizzare e migliore il processo di lavorazione, dall'altra la NASA sta cercando un modo per spremere dal plutonio-238 già in suo possesso, quanta più energia possibile. Ad esempio, sostituendo le termocoppie, cioè i dispositivi che generano elettricità dal decadimento radioattivo del plutonio, a base di piombo con un materiale di cobalto-antimonio noto come skutterudite.
Il design attuale delle batterie è un'evoluzione del RTG, il Multi-Mission Radioisotope Thermoelectric Generator (MMRTG), che utilizza 4,8 chilogrammi di biossido di plutonio, un composto chimicamente stabile, per fornire 2.000 watt di calore e 110 watt di energia elettrica ad inizio missione, con un tempo di dimezzamento di 87,7 anni.
Tutti questi sforzi per produrre più plutonio-238 e conservarlo, non saranno però ancora sufficienti se la NASA vorrà utilizzarlo nelle prossime missioni umane, come portare gli astronauti su un asteroide.